Novità del mese Offerte del mese Acquista per informazioni per informazioni conten Acquista Offerte del mese Novità del mese

Benvenuti sul sito della Libreria Editrice Urso, dal 1975 un angolo di cultura ad Avola. Novità del mese Offerte del mese Acquista per informazioni GIARDINO ZEN AVOLA
Pagine [1]
[2
] [3] [4]

I "PERIPATETICI DI ELORO"

DAL VIET-NAM
Il nostro amico Chân Phâp Y si trova da non molto tempo in Vietnam e si è impegnato a inviarci delle lettere su specifici temi che possono stimolare la curiosita' dei lettori, una sorta di travel diary. Ci scrive fra l'altro: -Se potrò incollerò anche delle foto. Il mio vero problema è l'accesso alla rete e il tempo. Siamo così oberati, che spesso penso di dare forfait e andare in ibernazione. Ma sarò forte, resisterò, e finirò ciò che sto scrivendo per il Giardino Zen.
Tutto quello che dal nostro amico riusciremo a ricevere, in queste particolari situazioni di difficoltà, sarà particolarmente gradito.
Ciccio


Carissimi,
Il nostro "pellegrinaggio" da pagoda in pagoda continua. Qui la pagoda si chiama Chua e ha lo stesso significato del Tailandese Wat e del Tibetano Gompa, ovverosia tempio-monastero, e ce ne sono almeno cinquemila sull’intero territorio. Noi stiamo visitando le più importanti o che hanno avuto e mantengono una funzione di preminenza nella storia del Buddismo Vietnamita.
L’aspetto architettonico delle pagode varia secondo i mezzi finanziari che la sostengono o, qualche volta, perché espressamente disegnato dal re o dal feudatario locale che l’ha voluta. Si va da semplici costruzioni quasi sempre quadrate a complessi dall’estensione insolitamente vasta.
In questo momento, le 14: 25 ora locale che dovrebbe corrispondere alle 8: 25 in Italia, del 26 Gennaio 2005, giorno del mio compleanno, sto scrivendo nella sala da pranzo della Chua Phap Van grazie a due ventilatori che mitigano i 33 gradi celsius di Ho Chi Minh City, una volta Saigon.
All’entrata di ogni pagoda troneggiano statue di impauranti deità protettrici , sorta di spiriti dei luoghi, invariabilmente dipinti di rosso e armati di spada. E’ più che evidente l’influenza della iconografia indiana. Hanno facce distorte dalla rabbia e dall’aggressività’, occhi dilatati, denti quasi felini e corpi tozzi come modellati dall’accetta. Ne potete vedere di equivalenti in qualsiasi dipinto indiano di ispirazione religiosa.
All’interno le pagode sono foreste di statue del Buddha e dei Bodhisattva anch’esse di vernice sanguigna e similoro. Le offerte sugli altari mostrano tutta la panoplia di frutta tropicale e, spesso ma solo nel nord, bottiglie di birra.
Alle pareti figure di assorte espressioni dai colori smunti e di paramenti cardinalizirinascimentali : i defunti grandi maestri, o fondatori, locali.
L’aria è pressoché irrespirabile. L’inquinamento impedisce il manifestarsi della luce solare e i nostri polmoni sono stracarichi di polvere farinacea che arrossa gli occhi. Gli abitanti della città portano una striscia di cotone che copre la bocca, a guisa di maschera, ma penso che la protezione sia minima.
Sull’aereo da Hanoi a Saigon ho letto una notizia che mi ha intristito e che è divenuta meditazione. Un piccolo agricoltore espone le proprie lamentazioni perché la coltre spessa di materia grigia nel cielo impedisce al sole di far fiorire i suoi ottanta peschi. I fiori del pesco sono indispensabili nella celebrazione del Tet, il capo d’anno lunare delle civiltà asiatiche, che occorrerà fra pochi giorni. Altri contadini sono ricorsi alla illuminazione artificiale e all’innaffiamento con acqua tiepida ché a Hanoi è ancora freddo.
Le strade sono letteralmente coperte da sciami di rumorosi e inquinanti scooters. La motoretta è il mezzo di trasporto individuale più diffuso nel paese. Credo ce ne siano svariati milioni. Un giorno, a Hanoi, ho visto dal finestrino del nostro bus, una strada molto larga e lunga interamente coperta da queste locuste a due ruote. Avevo già avuto una immagine simile a Patna nello stato indiano del Bihar, ma lì si trattava di riksha, i famigerati tricicli a energia umana. Ce n’è qualcuno anche a qui.
La vegetazione, alberi, piante, frutti, fiori è lussureggiante e lussuriosa come solo ai tropici è dato di vedere.
Vedo dappertutto ricostruzioni di antiche pagode e costruzione di nuove. Si costruisce ovunque, una specie di impositiva ma discreta rinascenza di una religione folklorica altrimenti dissuasa. Anche le chiese cattoliche, a Ho Chi Minh City e nel sud in generale il cattolicesimo è molto diffuso, non sfuggono alla medesima febbre del mattone e del cemento. Sembra si stia riscoprendo, forse in ritardo, che la religione organizzata, istituzionalizzata, di qualsiasi denominazione, per quanto artificiosa, serve bene il proposito sottinteso nella definizione: rilegare, tenere uniti. La religione organizzata è essenziale alla stabilità politica di un paese e alla sua struttura etica.
Che poi soddisfi il bisogno umano naturale di spiritualità, questo è un altro discorso.
Come è un altro discorso, e per me penoso, scoprire un angolo silenzioso dove possa rimanere indisturbato per qualche diecina di minuti a leggere o a scrivere. Molto tempo fa scoprii che il silenzio non è d’uso nei paesi poveri perché il silenzio è sempre il silenzio della paura; paura del buio, dell’ignoto, dell’imprevedibile, della morte.
Mi adatto a una situazione spiacevole non solo per via della rumorosità continua e assordante ma anche per la mancanza di tempo personale, stiamo in giro dalle cinque del mattino alle nove di sera. L’accesso alla rete non è facile quantunque ci siano cafe-internet in ogni strada. Oggi ho dichiarato sciopero e sono rimasto a "casa" per scrivervi questa lettera e per meditare sui miei dubbi, sulle mie delusioni e sulla tristezza che ne deriva. Sto meditando su decisioni molto importanti per la mia vita di persona zen. Ho bisogno vitale di restare me stesso in ogni momento ad ogni costo in tutte le situazioni.
Mi sento catapultato in un passato da incubi. Osservare quest’apoteosi di superstizioni che ancora perpetuano sé stesse sotto i paludamenti di una religione obsoleta e sclerotizzata scalfisce la mia tranquillità mentale e m’induce a rifugiarmi nel mondo surreale della mia scrittura. Non una fuga ma un salutare allontanamento.
Domani inizierà un ritiro monastico di sei giorni e si resterà nello stesso luogo per l’intera settimana, dopodiché continueremo la marcia da pagoda in pagoda.
Fraternamente vi abbraccio tutti

Chân Phâp Y 
da Ho Chi Minh City

Con la lettura è possibile consolare l’anima
Dal Vietnam, ma potrebbe essere da qualsiasi altra parte del mondo. La descrizione dei luoghi fatta dal nostro amico porta con sé l’immagine di questa vita che sempre più non ci appartiene, che sempre meno è a misura d’uomo. Lo spaesamento umano, perché di questo vuole parlarci il nostro amico Chân Phâp Y, non è quella condizione in cui la persona prova disagio o smarrimento in relazione all’ambiente in cui si trova, è piuttosto una situazione di non-riconoscimento, di inadeguatezza, soprattutto interiore. E questo lo vedi ovunque ed in relazione a qualsiasi problematica: nella società, nella religione, che, come giustamente accenna il nostro amico, è ormai relegata ad un’immagine conformista e poco spirituale.
Con la scrittura è possibile lavarsi il cuore, direbbe un mio amico. Io aggiungo: con la lettura è possibile consolare l’anima.
Dal Vietnam, ma potrebbe essere da qualsiasi parte del mondo…
Dal mio luogo, un abbraccio.
Leonardo Miucci

Seconda lettera dal Viet-Nam Lo squarcio fra le due finestre su Ho Chi Minh City è così profondo che l’unico filo di connessione è costituito da esigue pattuglie di motorette. Non c’è dubbio comunque che siamo sempre nella stessa città super popolata di dieci milioni d’abitanti.
Le facce sono vietnamite ma le loro espressioni sono più distese che nelle periferie. Siamo infatti nel cuore di Saigon, nel centro della città che ti getta negli occhi tutto il cascame di sapore coloniale e occidentale.
Macchine private, come raramente se ne vedono in periferia, sostano dappertutto. Sono macchine che in occidente costano care: giapponesi, coreane, tedesche. L’economia coreana e’ massivamente presente in Vietnam. Dei paesi europei solo la Germania ha un notevole scambio commerciale, anzi la Germania è in partner numero uno dell’interscambio con il Vietnam.
Qui sono concentrati tutti gli Hotels di catene internazionali che sistematicamente ho visto in tutti i paesi del terzo mondo: Sheraton, Novotel, Majestic,Grand Hotel, Caravelle etc. Ho visto questi hotels, e in alcuni di essi, obbligato da necessità logistiche, ho vissuto per qualche tempo, nei paesi più poveri del Terzo Mondo che rifiuto di chiamare Paesi in via di Sviluppo. Rifiuto perché è la denominazione e la legalizzazione di un imbroglio a scala mondiale. Se qualche cosa è in via di sviluppo nei paesi del terzo mondo questa è la miseria, l’aids, e una lunga serie di epidemie mortali. È tristemente noto che la miseria del terzo Mondo è un business di proporzioni globali che genera vergognosi profitti e coinvolge diecine di migliaia di persone. Il cosiddetto aiuto al Terzo Mondo non è però uno dei soggetti di questa lettera. È un argomento scottante, molti se ne sono già occupati e anch’io in futuro avrò qualcosa da dire per esperienza personale.
Basta dire che l’aiuto economico al Terzo Mondo, così come oggi è concepito e attuato dai paesi del nord, è un’altra forma di colonialismo, di sfruttamento e di oppressione.
Diceva il re Sikanio Kokal a Lucilius, legato imperiale nell’Isola d’Oro: ”la vostra ricchezza è la miseria degli altri.” Ma questa storia la leggerete più tardi.
Ai risonanti nomi degli Hotels s’incollano molto più famose e più familiari etichette perché la scansione alfabetica mi è di casa, sono affarucci italiani: Armani, Cerruti, Cavalli, Versace, Fendi e altri a me sconosciuti. Non basta, il panorama di falsa vetrina non sarebbe completo senza i vari Cartier, Rolex, Rado, Bulgari e che ne ha più ne metta.
I Rolex e i Rado si trovano anche sulle bancarelle delle periferie.
Camminiamo lentamente per queste vie del centro seguendo Thay che ci descrive i luoghi con dovizia di dettagli. Thay ha vissuto per circa vent’anni in Saigon dove fondò la scuola per il servizio sociale nonché l’università buddista.
Dal Palazzo Presidenziale, quello dell’antico regime, ci dirigiamo verso il Song Sai-Gon, il fiume della città, attraverso l’avenue Nguyen Hué, larga ben 70 metri, che qui i locali chiamano Champs-Èlysées del Viet-Nam.
Il fiume, che si riversa nel delta del Mekong, ovvero nel mare orientale o mare della Cina, sembra affollato d’imbarcazioni di media e piccola stazza. Alcuni mi ricordano i burchielli veneziani e come quelli sono destinati a uso turistico.
Camminando osservo le merci esposte dai negozi, in alcuni entro e mi soffermo a toccare, chiedere, sorridere. C’è una notevole varietà di mercanzie, specialmente valigeria d’ogni sorta, di ottima qualità e dal disegno quasi italiano. Tutto viene dalla Cina e tutto costa pochi € . Una valigia di medie proporzioni, robusta e leggera, quindi ideale per viaggi in aereo, costa soltanto dieci € . Sandali solidissimi e di bella forma, te li danno a un € o un dollaro e mezzo.
Lentamente nasce la febbre dello shopping e infatti l’indomani, nelle poche ore libere regalateci da un cambio del programma, è la corsa all’acquisto di quanto necessario ma a prezzi “monastici”.
Bancarelle sui marciapiedi regalano visioni ricchissime di frutta e di fiori, altre di verdure e tuberi, altre ancora di pesci ancora vivi e guizzanti in larghe bacinelle di plastica.
Il frutto più ammirato e più consumato è il Dragone Verde del quale vi accludo una foto ma anche il sapodilla, dolcissimo, è apprezzato assieme alla papaia, al mango e al Durian che in Thailandia è considerato il re del mondo della frutta. Il Durian è di una dolcezza schifiltosa e appiccicosa, non consigliato a chi ha problemi di glicemia.
Dragone Verde
Il Dragone Verde, anche chiamato uovo di dragone, ha una polpa bianchissima e tenera affollata da semini neri. L’esterno è rosso e ha delle protuberanze che sembrano piccole ali. È molto bello.
Si possono osservare anche arance e mandarini talmente piccoli e perfetti che mi ricordano la frutta di marzapane nella Sicilia della mia infanzia. Vengono dalla Cina mentre le mele, lucide di cera e tutte perfettamente uguali per colore e dimensioni, sono importate dagli USA. Incredibile ma vero.
Dopo una sosta sulla riva cementata del fiume invertiamo la marcia e ci dirigiamo verso una piazza assolatissima dove i nostri bus NON ci attendono.
Gironzoliamo attorno al monumento di un re medievale scrutando per esigue zone d’ombra.
Thay ci invita a sederci per terra e ci godiamo alcuni momenti di frescura.
Fortunatamente c’è una pattuglia ti taxi che ci salva dall’arrostimento solare.
Ma qualcosa d’insolito accadde negli ultimi istanti.
Da un computer dell’adiacente cybercafé volò tra la folla un ippopotamo azzurro dalla coda di mandrillo. Emise alcuni suoni gravi privi di grazia e tentò di planare sulla testa della statua storica ma fu scacciato da una coppia di cornacchie. Imperterrite motorette e macchine si dirigevano compatte verso l’Opera, chiusa al pubblico per via di prove di spettacoli per il Tet, avvilendo il grosso maiale che deluso anche dalla disattenzione degli umani rientrò frettolosamente in un cavo dell’adsl.
Nessun giornale citò l’avvenimento e fu così che Sai-Gon perdette un momento di gloria.

Chân Phâp Y 

Ho Chi Minh City, 12 Febbraio 2005

P.S. Da quando sono arrivato in Viet-Nam non ho ancora visto il cielo blu.


P.S. 2: Dalla prossima lettera comincerò a parlarvi dell’impatto culturale che la presenza di Thay sta generando.

Terza lettera dal Viet-Nam Dobbiamo lasciare Ho Chi Minh City per Huè, la terra natale di Thay nel Viet-Nam centrale. Mentre preparo il mio piccolo bagaglio ho la sensazione di qualcosa che fugge, di una mancanza non definita. Ho qualche ora a mia disposizione e ne approfitto per un’ultima camminata nell’affascinante zibaldone del mercato rionale Cho Tan Huong., apprenderne ancora i sentori, incantarmi alla visione delle molteplici delizie vegetali, sorridere a qualche anguilla che salta fuori dalla bacinella d’acqua ch’è la sua prigione; mi fermo a riempirmi gli occhi dei colori di cianfrusaglie in sintetico appese ad aste di bambù contro i muri delle case: sono tele di un’arte estemporanea che ha una sua energia segreta di ispirazione.

Chiedo a una sorella olandese di scattare alcune foto per me. Ve ne allego alcune.

Non mi va molto di andare per botteghe se non quando realmente necessario. Non amo le cattedrali del consumismo e quando mi capita di entrare in un supermercato ne esco dopo cinque minuti. Vedo, attraverso uno spazio lasciato libero da  cappellini e scialli di policromie caraibiche, un negozietto modesto nel quale si alzano, ai lati della porta, coloratissimi rotoli di non-so-cosa. Spinto dalla curiosità  entro. Prendo in mano uno di quei rotoli e realizzo che sono tappeti di paglia. La signora che gestisce il negozio  mi invita a distenderne uno sul pavimento. È davvero molto bello, di un’estetica sobria nonostante la vivacità dei colori.

La signora mi corregge, non è un tappeto ma una stuoia per dormirci sopra, e mi informa che è prodotta in Laos dalle donne contadine. Riprendo in mano la stuoia, è solida, leggera e facilmente pieghevole. Chiedo il prezzo, 100.000 dongs che qui è una somma di rispetto  ma che corrisponde a poco più di quattro € . La compro pensando di farne il mio dormitorio  per il resto dei miei giorni.

Infantilmente contento del mio acquisto me ne torno alla Pagoda Phap  Van in attesa del bus per l’aeroporto.

Atterriamo nella cittá imperiale di Huè. Centinaia di persone accolgono Thay  e la delegazione di Plum Village. Macchine e autobus affollano il parcheggio mentre montagne di petali di rose e fiori gialli di pruno ci cadono a pioggia sui corpi.

Ci dirigiamo alla Chua Tu Dam che è la pagoda principale della cittá e la più antica. Dopo l’offerta di rispetto ci incamminiamo per Tu Hieu, il tempio dove Thay è nato alla vita monastica  all’età’di 13 anni  Il momento è carico di emozioni. Dopo quaranta anni di esilio  Thay ritorna nella sua casa. Ne era uscito da monaco solitario e ne rientra da  Maestro Zen mondialmente conosciuto con un seguito di circa trecento persone più qualche centinaio di praticanti locali..

Sono vicinissimo a Thay e ne approfitto per guardarlo attentamente in viso, è stanco ma gli vedo negli occhi e sulle labbra semisorridenti una profonda felicità che arriva, in compostezza, da una lunga, lunghissima attesa.

L’indomani inizia una serie di conferenze pubbliche che continua il flusso  di comunicazione iniziato a Hanoi e proseguito a Ho Chi Minh City.  È ormai evidente che Thay sta seminando i grani di una rivoluzione culturale dagli esiti imprevedibili. Thay sta offrendo al Viet-nam  la sua visione del Buddismo adattata alla cultura occidentale. Essenzialmente Thay parla della consapevolezza, quale veicolo verso una vita di felicità, così come  esposta nei sutra del Canone Pali Satipattana e Anapanasati. Questi sutra si trovano pure negli Agama del Mahayana. Thay insiste anche, e con appassionata forza sullo sviluppo e il mantenimento dello spirito di fratellanza.

Quanto tempo questi semi richiederanno per germogliare è arduo prevederlo. Il suolo è da lungo tempo  invaso  dall’erba e dalle gramigne della superstizione istituzionalizzata. La fertilità di questo suolo è incerta ma esiste anche una permacultura della spiritualità.  Masanobu Fukuoka ne sa qualcosa. Ho parlato con molte persone, laiche e monastiche e tutte condividono il bisogno di cambiamento e di approfondimento per quanto coscienti della pesantezza e della falsità delle liturgie abitudinarie.

Mi diceva  un parroco di campagna, vecchio saggio e mio buon amico, che spesso le apparenze sono la linfa vitale della essenzialità. Forse aveva ragione.

L’indomani andiamo in una pagoda che è la  sede di un istituto per avanzati studi buddisti dove anziché l’insegnamento usuale Thay offre agli studenti la possibilità di porre domande, ma prima di iniziare Thay esplicitamente parla di corruzione nel mondo monastico.

Ogni risposta è una miniconferenza  e le domande sono tutte pertinenti, alcune anche ansiose quale per esempio quella posta da una giovane monaca: Thay, come possiamo praticare i tuoi insegnamenti senza che ci sia una guida costantemente presente?

Thay promette l’invio trimestrale di insegnanti del Dharma da Plum Village, dalla California e dal Vermont. Intanto tutti gli insegnanti del Dharma di nazionalità vietnamita ma temporaneamente residenti in Europa e  negli USA dovranno ritornare immediatamente in Vietnam e rendersi utili.

Dopo il pranzo, come era già accaduto a  Ho Chi Minh City, camminiamo per qualche ora sul viale principale della città, diamo uno sguardo al mercato coperto e rientriamo a Tu Hieu in minibus traversando il ponte sul Song Huong, il Fiume Profumo o Fiume delle Fragranze dove, se noleggiate un Sampan per una passeggiata navigante, si possono ascoltare le cantatrici barcarole.

Qui tutto è verde, ovunque si guardi non c’è che verde, alberi, erbe, cespugli, boschi di bambù, un’ossessione di verde.

Andiamo per un breve tour turistico e visitiamo la cittadella imperiale della dinastia Nguyen (1802-1945). La cittadella, costruita dal re Minh Mang fra 1804 e il 1833,  è un insieme di padiglioni all’interno dipinti di rosso e soprascritti in giallo. Sono i due colori che si ripetono ossessivamente in tutto il Paese, anche nella bandiera nazionale.  Sono forse i colori karmici  del Viet-Nam?

All’interno delle mura c’è molto verde, stagni di nenufar e ampi spazi terrazzati in cotto.

La cittadella è un monumento nazionale e la trovate anche nelle guide turistiche. Per quel che mi concerne è solamente un relitto dell’arretratezza feudale che, per quanto di recente costruzione, ricorda il maniero cintato di un baronetto medievale; solo che i baroni usavano pietre mentre qui ci si affida alla fragilità di legni dipinti.

Su una flotta di minibus arriviamo in un villaggio dalla piazza in terra nuda dove parcheggiamo i mezzi di trasporto. Siamo 353 persone. A piedi passiamo un ponticello in pietra e ci inoltriamo su una stradicciola a tratti cementata fra campi di riso e orti. Andiamo verso il villaggio natale di Thay. In realtà non c’è alcun villaggio nel senso comune del termine ma varie casette seminate a caso e troppo recenti perché Thay possa averne memoria. Solo il tempietto degli antenati familiari resta al suo posto  ben guardato da due vecchissimi blanki di Thay. Niente di speciale, il solito tempietto confuciano dedicato agli antenati nel quale Thay entra con tutti gli onori, dai flauti ai parasole, offre incenso all’altare e doni ai due guardiani. Solo poche persone riescono a entrare con Thay, l’area è troppo piccola. Alcuni, ovviamente caucasici, ne approfittano per fare acrobazie su un ponte costituito da due aste di bambù all’inizio e alla fine e da una sola asta in centro.

Sono stanco, stanchissimo; automaticamente mi incammino verso il ponte in miniatura e la piazza dei bus  ma dopo qualche diecina di metri mi sento chiamare da una voce femminile. Mi volto in direzione della voce e vedo un gruppetto di tre monache inginocchiate sull’erba, i loro sguardi e le loro braccia convergenti verso qualcosa davanti a loro. Arrivo, mi inginocchio anch’io e guardo l’oggetto del loro interesse: un millepiedi dall’aria itterica su un tratto di ciottoli rossi molto comuni in questa zona.

Il vermiciattolo giallastro alza la protuberanza anteriore che suppongo faccia funzione di testa  e saetta  il suo sguardo semiliquido contro i miei occhi. Per una snocciolata di secondi i miei muscoli fremono e mi sento addosso il fenomeno adrenalinico della pelle d’oca. Altro che millepiedi! Lo riconosco d’acchito. Non ho dubbi, questa è una vecchia  conoscenza la cui origine si perde dove il tempo non arriva. Sono mosso da pietà mentre mi sento coinvolto in un delirio di grottesco dal sapore d’infinito.

Il bacherozzo altro non è che l’ultima reincarnazione di  Kostanbhar il più grande fra i signori della guerra nel mondo senza pace di Mirlack, il più potente fra i Maghi-Dragoni nell’universo dove fui posto a guardia della foresta degli alberi flauto. Sovente Kostanbhar tentò di penetrare la barriera di muschio trasformante che circondava il mio dominio ma sempre ne fu respinto e per lungo tempo restò fra le sue montagne a risanarsi le ferite delle frequenti guerricciole con altri potentati di caimani volanti.

Sciaguratamente convinto dalla posizione delle stelle durante la notte del suo novantesimo matrimonio Kostanbhar decise di sfidarmi chiedendo la foresta in caso di vittoria e offrendo il suo regno in caso di sconfitta. Il collerico alligatore non sapeva che la foresta degli alberi flauto apparteneva al Consiglio dei Nikantropi e che era pertanto imprendibile ma era fra i miei doveri mantenere il segreto  né il mago-lucertola era consapevole che, grazie alla mia natura, non avrebbe mai potuto vincermi.

Decisi, per il mio piacere,  di accettare il duello sapendo tuttavia che stavo per commettere due errori fondamentali : uscire dalla foresta senza il permesso del Consiglio e commettere un atto di violenza, grave delitto nel codice dei Pacificatori. Ero  molto giovane, undicimila anni nel calendario terrestre, amavo le avventure e decisamente detestavo Kostenbhar.

Ci incontrammo sul pianoro delle Nove Torce  nel possedimento neutro  del vecchio e povero dragone Matukrank  che ormai non combatteva più da oltre  ventuno generazioni.

Dal che mi vide il nemico mi saettò addosso un fiume di ardesia fiammante che lasciai passare attraverso il mio corpo trasformandola in missili di ghiaccio che sferrai nella bocca del   serpentaccio.

Kastenbhar crollò al suolo  privo dei sensi  ma si rimise in sesto di svelto e contrattaccò di lancia, la sua famosa zagaglia incantatrice di giada magica.

Per quanto sapessi che il protervo giocoliere della guerra non poteva infliggermi alcuna ferita, la vista del suo famigerato coltellaccio da mattatoio mi avvampò lo spirito e chiamai dall’interno del mio corpo la spada parlante dei  guardiani di Areteia.

Più  veloce della sua percezione mi fulminai  su Kostanbhar, ne avviluppai il corpo scaglioso nella la sofficità del mio e ordinai alla  spada Gadhur di mozzargli  la testa.

Kostanbhar si dissolse in fiocchi amaranto di gas e rinacque  molto tempo dopo nel mondo degli iguana . Non sentii più parlare di lui per una dozzina di eoni.

Indietro nella foresta dovetti affrontare il prevedibile. La voce del Consiglio arrivò severa  e implacabile. Posi la spada ai piedi del decano degli alberi, mi sollevai al di sopra della foresta  e guardai per l’ultima volta il mio corpo di Nuvola Mutante.

Mi ritrovai in sembianze umane seduto sul suolo di una capanna , nel paese di Han , recitando e traducendo nel mio linguaggio alcune delle risposte  che, nel  Vajrachedka, Shakyamuni dà al Bodhisattva Subhuti:

la realtà, caro Subhuti,  è non-realtà, quindi possiamo chiamarla realtà.

Il giorno appresso andiamo alla famosa pagoda  Linh Mu  dove Tich Quang Duc fondò la Chiesa Buddista Unificata, trasmise il Pratimoksha , cioè l’orinazione completa, a Thay  nel 1946 e da dove partì per Saigon su una Martin azzurra verso il suo destino di Bodhisattva. Tich Quang Duc si immolò, in segno di protesta contro il regime fascista e discriminatorio di Ngo Dinh Diem,  infiammando il proprio corpo  cosparso di benzina l’11 Giugno 1963. La fotografia di Tich Quang Duc in fiamme fece il giro del mondo.

Il relitto della macchina è in una stanza senza porta, visibile da tutti . Al muro dietro la macchina è appesa la fotografia del suo cuore pietrificato, l’unica parte del suo corpo non incenerita dalle fiamme.

Chân Phâp Y 
Hué, Vietnam Centrale, il 27 Febbraio 2005

P.S. 01. Nel prossimo futuro vi racconterò in dettaglio  la storia di Mirlack che l’arrivo contemporaneo del Buddha e del Cristo  trasformò in tempio cosmico della pace. 

P.S. 02. Tutte le fotografie allegate sono di Sister Sandra.


Un angolo del mercato Cho Tan Huong

foto
Camminando in Ho Chi Minh City    

      foto
Albero del Sapodilla

foto
Bulgari in Ho Chi Minh City

      foto
PV in Ho Chi Minh City 

       foto
La danza del drago
nel giorno del  Tet

                    foto
Sulla strada verso il villaggio di Thay

  foto  
  Lom Chom    

 
foto
Mang cau-Na  
   
    foto
Longans

foto
Due bambine dedicate
a futura vita monastica

foto
Giovane novizio
alla campana della pagoda

foto
Thay mostra la colonna sulla quale,
quand’era novizio Scrisse di nascosto
Prendo il voto di salvare
tutti gli esseri viventi.
A quel tempo la colonna era ancora bianca.

foto
Al tempio dei suoi antenati
Thay e' accolto da due
suoi distanti cugini.
Questo è uno di loro.

foto
La venerabile Dieu Tri, 98 anni,
che conosceva Thay da bambino
 e che e’ venuta ad accoglierlo
all’aeroporto di Hue’

foto
Thay accolto dai venerabili all'entrata di Tu Hieu

foto
Thay offre incenso
alla stupa del fondatore di Tu Hieu


Sulla stradina per Tu Hieu.
Alla destra  la triplice porta
di un tempietto confuciano


Thay sulla strada del suo villaggio


All'aeroporto di Hue'

Quarta lettera dal Viet-Nam La saggezza dell’astuzia impostora, quella del cambiar tutto per non cambiare niente, è di astorica vecchiezza e probabilmente nasce con i primi poteri organizzati.
Ci sono tuttavia eventi nella vicenda umana in cui questa saggezza dell’oscurità sagoma comportamenti sociali e filosofie di vita che possono resistere per millenni.
Il Gattopardo, e qui va per nome collettivo, non scoprì molto sul tema; fu consapevole dell’imbroglio storico e con cinica intelligenza ne visse l’esperienza. Dopotutto apparteneva a un’etnia che nulla perdette se non una bandiera per acquisirne un’altra.
Il primo invisibile cambiamento per non cambiare fu invece d’ordine eonico nel mezzo della prima epoca assiale di cui si abbia testimonianza. Accadde in quel territorio che oggi è l’India del nord. La pervasiva corruzione morale della morente società vedico-aryana aveva obbligato la casta braminica a riforme radicali di autoprotezione in estremo. I Bramini riformatori codificarono la nuova morale in testi a noi noti come Upanishad. La violenza contro gli animali -l’abbattimento di cavalli, vacche e ovini sia per l’altare dei sacrifici che per il mercato alimentare- era sì comune e inutilmente esagerata che divenne un’onta pubblica.
Chi rischiava di pagarne le conseguenze, in termini di estinzione, era la casta sacerdotale,la più potente nell’ordine delle quattro caste di potere, che più di altri abusava della vita animale per le sue cerimonie sacrificali.
Consapevoli della destabilizzazione di quell’asse portante etico ch’era stato il coibente dell’unità tribale ariana i Bramini più astuti o più sensibili o più perspicaci aprirono i portali a quella che fu poi definita la prima rivoluzione culturale dell’India. Definizione incorretta per due ragioni: primo non fu una rivoluzione ma una riforma con l’occultato intento di essere contro-riformata; secondo perché le idee che si portano dentro i germi delle grandi rivoluzioni sono sempre idee, così arguisce Anthony de Mello, della minorità di uno, cioè di una sola persona. Infatti la prima vera rivoluzione culturale in India fu opera del Buddha.
Le uccisioni di esseri viventi furono ridotte all’essenziale, per quanto il concetto di essenzialità sia sempre di natura egoistica e comunque sempre dubitativo, e la rinascita dello spirito ebbe inizio.
Quanto durò? Non lo sappiamo con certezza ma innegabilmente per meno di un secolo.
Lo spirito della non violenza fu mantenuto vivo fuori dal Bramanesimo, dai Jain e dal Buddha nonché da alcune sette tradizionali che furono in seguito alle origini dell’Induismo. In questa continuità millenaria sta l’influenza positiva di una riforma che altrimenti nacque per ben altri scopi.
Certo è che in successive Upanishad la necessità di uccidere ciò che si muove, per cibo o per difesa, è nuovamente sanzionata.
Il capolavoro della controriforma arriva con la sentenza, impeccabile per sintesi e chiarezza, che dice uccidere per il sacrificio non è uccidere.
Purificato della sua natura peccaminosa l’atto si spoglia dell’abito sporco della violenza,
ammazzare in guerra non è omicidio, non è genocidio, non è strage. Assassinare un condannato a morte non è delitto, si sostituisce il verbo con giustiziare.
La coscienza è salva, l’anima è bianca.
Mi sono lasciato prendere da questa breve riflessione, già lungamente e altrove elaborata più di un anno fa, dopo il mio rifiuto di intervenire al programma di oggi che prevedeva qualche ora di navigazione in sampan sul Song Huong e il rituale della liberazione di pesci e uccelli. La liberazione di animali catturati, in questa parte del Paese, è un atto liturgico estremamente semplice, un solo gesto, praticato da laici e monastici, come mezzo per accumulare meriti. Quali meriti? E per quale ragione? Di fronte a chi? Mi sono astenuto dal parteciparvi sebbene fossi già caduto nella trappola contribuendo alla liberazione di alcune rondini.
Si dovrebbe scoraggiare l’uso di questa pratica che è mostruosa sin dall’inizio. La cattura degli uccelli o dei pesci e il loro intasamento in gabbie e vasche dove muoiono per soffocamento è una tortura inutile poiché anche il profitto economico derivato dalla vendita degli animali da liberare è di inconsistente rilevanza. Purtroppo anche questa pratica è una ulteriore manifestazione di quanto penetrata a fondo sia nel contesto culturale la trasformazione della spiritualità in superstizione regimentata e di quanto un atto di crudeltà, la cattura, non sia considerato violenza.
Thay è fisicamente stanco e per alcuni giorni se ne è rimasto nella sua stanza a farsi curare con massaggi e dieta speciale. La venuta in Viet-Nam di Thay e della delegazione di Plum Village sta suscitando opposte reazioni nel mondo buddista vietnamita sia in Viet-Nam che in Europa.
Purtroppo ciascuno guarda alla propria bottega e non è comunque facile comprendere la sottile strategia che Thay sta giocando per convincere l’Organizzazione Buddista ufficiale ad aprirsi e riformarsi prima che sia ingoiata dalla deflagrazione morale verso cui sta correndo il paese.
Ciò che non piace ai religiosi vietnamiti all’estero è che Thay riconosca l’impegno del Governo a sradicare corruzione, delinquenza minorile, prostituzione sia minorile che adulta e alcolismo. Ma Thay sottolinea che questo impegno, per quanto forte e risoluto, non basta se prima non si ricostruisce l’architettura morale del Paese. Quindi il suo non è un riconoscimento passivo per ammorbidire le Autorità.
E l’architettura morale la si ricostituisce riconducendo a nuova vita antichi valori mai obsoleti perché della natura stessa dell’esistenza. Da qui nasce la necessità di spogliarsi d’antiche liturgie e pratiche devianti.
Thay parla soprattutto ai giovani e parla di ascolto profondo, di sviluppo del senso di fratellanza, di compassione e di impegno sociale. I pilastri dell’armoniosa esistenza
Tutti, Governo compreso, lo ascoltano con estrema attenzione e rispetto. Perché Thay parla di una verità oggettiva difficilmente contestabile e visibile da chiunque.
L’inaspettato riposo, si fa per dire, mi cede a indulgere alla contemplazione del piccolo giardino davanti la porta della mia stanza. Alberelli di tè dalle foglioline di pallido verde che avvolgo in minute biglie da masticare o che lascio in infusione per trenta secondi. Se fossero commercializzate, queste foglie appena nate avrebbero l’etichetta di tè bianco e costerebbero parecchi € per grammo.
dragone verdeCi sono alberi di sampucé o sapodilla e alcune cactacee rampicanti chiamate dragone verde e che producono un frutto dalla forma attraente e dal gusto raffinatamente dolce. La fotografia del Dragone Verde che vi ho inviato non vi è arrivata perché contestuale alla lettera. Problemi forse di linguaggio internet.Ve ne mando una separatamente.
C’è anche un alberino di limoncello senza frutti ma con fiori -si dice zagare?- dal profumo intenso e dalla tessitura morbida per quanto densa.
Gli alberi di Jackfruit, forse conosciuto in Europa con il nome portoghese di Jaca ma non ne sono certo, si sprecano.frutti dragone I frutti di quest’albero, enormi palloni verdi da rugby interamente ricoperti da protuberanze dure ma non spinose, nascono direttamente dal tronco, da ogni parte del tronco, dalla cima al rasoterra. Si mangiano crudi o cotti in salsa dolciastra e perfino fritti. Quel che si mangia è una polpa bianca ricchissima in fibre attaccata attorno ai semi che hanno la dimensione di una noce. L’albero è di origine Malay, ovvero della penisola formata dalla Tailandia sudoccidentale, dalla Malesia occidentale e dall’isola di Singapore. Ve ne invierò una foto.
Che dire dei Frangipani? Ovunque volgo lo sguardo ne vedo uno, in questa stagione purtroppo senza i suoi fiori dai variegati colori e dalla fragranza gentile. Deve il suo nome al marchese italiano Muzio Frangipani del sedicesimo secolo ma è conosciuto anche come Plumeria che mi sembra nome più bello.
Questa mattina sono andato, con altri due fratelli, all’antico mercato di Dong Ba, istituzione storica di Hué e del quale Thay parla in alcune sue storie. Ci sono andato per comprare un’erba nera e disseccata che infusa dà un tè medicinale amarissimo ma efficace per il mantenimento dell’equilibrio trigliceridi- colesterolo. L’erba si chiama Chè Dang e va per dodici € al chilogrammo, prezzo proibitivo in Vietnam ma giustificato: le foglie vengono dalle montagne dove sono preparate a mano dalle piccole etnie locali.
Nient’altro mi attrae in questo mercato dove dolciumi iperzuccherati e merci in sintetico provenienti dalla Cina si impilano fino all’altissimo soffitto.
Ci instradiamo verso l’uscita per ritrovarci sotto una pioggia monsonica senza alcun riparo di parapioggia o di giacconi impermeabili. La mia testa appena rasata è coperta da un berretto di lana artificiale, le scarpe di robustissima fattura americana aprono discreti e segreti passaggi all’acqua. Mi sono appena rimesso da tre giorni di febbre influenzale. Che facciamo?
Semplice, se nell’intimo della mente siamo convinti che la pioggia non esiste, allora la pioggia non esiste e non può quindi bagnarci. Detto fatto siamo già sul ponte del Song Huong e mica tanto di corsa, lo zen è zen.
Prendiamo la strada che fiancheggia l’hotel Saigon-Morin, monumento dell’epoca coloniale costruito all’inizio del ‘900, glissando sotto le tettoie dei negozi quando vedo un’insegna che mi attrae: Mandarin Café . Confesso di essere una vittima volontaria, inveterata e felicissima della bevanda nera, amara e calda che viene dalla filtrazione di questi fagioli tostati e macinati che girano il mondo sotto il nome di caffè.
Invito accolto, entriamo. Siamo fradici inzuppati fino ai canali delle ossa. Lo zen non ci ha salvato.
Riassestati alla meglio dopo aver consumato tutti i tovaglioli di carta dei quattro tavoli a portata di mano ci sediamo e aspettiamo che qualcuno venga a chiederci cosa vogliamo. Non c’eravamo accorti, gli occhi semichiusi dall’acqua, che almeno quattro persone sono intorno a noi sorridenti e curiose.
Ovviamente chiedo un primo caffè mentre gli altri due vorrebbero mangiare qualcosa. Nell’attesa giro lo sguardo attorno. È una stanza stretta e lunga, come spesso se ne trovano anche a Parigi, con una parete interamente tappezzata di fotografie 40x60 senza cornici, senza descrizioni. Finisco il caffè e mi alzo per guardare da vicino le foto. Resto quasi senza fiato. Sono opere d’arte, sono la creazione di un occhio magico che sa vedere l’anima degli oggetti, che sa penetrare l’interno della sofferenza umana, che illumina la miseria senza defraudarla del suo stato di ingiustizia.
L’autore si chiama Pham Cu ed è il proprietario del Mandarin Cafè che funge anche da agenzia turistica, biglietteria aerea, noleggio di auto, barche, motorette e biciclette. Non ho chiesto, per pudore, se noleggiassero anche impermeabili.
Sono al mio terzo caffè, beandomi delle immagini che, in formato cartolina, la signora Cu mi ha voluto regalare quando un signore piccoletto, sulla sessantina, formalmente cortese si avvicina al tavolo e si presenta. È il signor Pham Cu, l’artista fotografo, ha esposto in Italia e in Francia, conosce Thay da quarant’anni e da altrettanto tempo non lo vede, mi mostra l’ultimo libro di Thay in lingua Vietnamita e mi parla del villaggio di sampan, la gente che vive sul fiume, invitandomi a visitarlo.
Ora è quasi tardi, la pioggia non cessa di sacrificare le strade piene di buche e i marciapiedi sventrati.
Ci guardiamo l’un l’altro, ci sorridiamo e alla faccia dello zen chiamiamo un taxi.

Chân Phâp Y, Hué 06 Marzo 2005
Tutte le fotografie allegate sono di Sister Sandra

QUINTA LETTERA dal Viet-Nam Sono le 10 antimeridiane del 15 Marzo 2005. Arriviamo all’aeroporto della grigia città di Hanoi. La temperatura esterna è di 13 gradi Celsius e dal cielo di pietra lavica pioviscola un liquido amaro. Fa freddo. Raggiungiamo gli autobus e insardinati fra valige e cartoni ci lasciamo dislocare, insonnoliti e stanchi per via della notte precedente in bianco, al monastero Bo De nel distretto di Quan Long Bien sulla riva sinistra del Fiume Rosso.
Per la prima volta usciamo da un aeroporto liberi dall’intasamento umano di folle plaudenti, flauti e tamburi. È una trasferta in sordina, questa da Huè a Hanoi, una passeggiata domestica, un voltar di strada silenzioso.
L’indomani mattina ancora in bus. Andiamo a visitare la residenza collinare del re Hung, ovvero i luoghi dove la residenza si suppone fosse stata eretta circa quattromila anni fa.
Per esigenze di un turismo ancora da venire, e nella speranza che i turisti di valuta pregiata un giorno arrivino, alcuni dei vari elementi della supposta residenza sono stati ricostruiti mentre altri sono tuttora in costruzione. Nient’altro che scatolame in cemento, provocatore di risentite delusioni, con l’altrettanto ossessiva dipintura in rosso. Chi si aspettava di scoprire una Valle dei Templi o i Fori Romani in versione cinese s’è accontentato di sedersi su una panchina di pietra vicino a Thay e masticare un pastone di riso pressato in foglie di banano che ci eravamo portati il mattino da Bo De.
L’Unesco finanzia ricostruzioni destinate a diventare attrazioni di un turismo ancora da venire. Questo sforzo di riacculturazione è osservabile in quasi tutti i paesi la cui cultura storica è disgraziatamente quella dell’asservimento coloniale ma con alcuni sprazzi di rivolta e indipendenza. Sono questi periodi di autonomia che poi diventeranno i capitoli eroici della loro storia.
Dire però che la nostra sortita turistica sia stata una completa delusione non sarebbe corretto. Il luogo è di una meraviglia eccezionale. Una collina incastonata nel mezzo di una foresta che è anche un parco botanico ricchissimo di specie arboree.
Ho visto un albero detto Ficus Callosa il cui tronco alla base, se scavato, potrebbe dare spazio a una confortevole capanna. Ho calcolato una circonferenza approssimativa di dieci metri. Per quanto abbia già visto in Africa alberi ancora più massicci l’immagine dell’extra ordinario colpisce sempre il senso della meraviglia.
La foresta è ricca di olmi, di Khaya Senegalese, tigli, mirti e altri rispettabili membri della loro famiglia. C’è una Cassia nodosa dai rami talmente lunghi che la circonferenza del loro ombrello potrebbe coprire l’area di un cortile
Né il popolo della foresta né quello del cielo si manifestano. Forse perché pioviggina, forse perché è freddo. Sono quasi deluso e triste. Mi aspettavo di incontrare almeno uno di quegli uccelli che si portano l’arcobaleno addosso e volano con quattro ali, o uno gnomo piccino, quelli di foresta così minuscoli che ce ne stanno una dozzina sul palmo di una mano. Niente, niente di tutto. Solo esseri umani.
Terminato il pic-nic, freddo e veloce, tutti sono felici di riavviarsi ai bus del ritorno mentre una piccola armata di ragazzine ci circonda offrendo le loro mercanzie a prezzo decuplicato ma nessuno compra medagliette di plastica, fischietti con stantuffo (curiosissima invenzione) o patate dolci bollite.
Mi siedo e attendo che gli altri passeggeri rientrino mentre inizio la mia ennesima lettura dello strabiliante Candide.
Sono le 07:45 del 17 Marzo 2005. La destinazione è un istituto dove Thay terrà una conferenza pubblica.
Dopo sette minuti di tortura su un tratto di strada che di strada ha solo il ricordo annegato in buche di fango gli autisti dei bus vanno avanti ma non conoscono l’itinerario, sbagliano direzione più volte, ci ingolfiamo nell’esofago di un traffico selvaggio.
Hoc Vien Chinh Tri Quoc Gia Ho Chi Minh ovvero Accademia Nazionale di Politica Ho Chi Minh è una istituzione educativa che in Italiano un tempo suonava come Scuola di Partito che però era a Mosca e nella quale parte della meglio gioventù della sinistra italiana ambiva istruirsi in demagogia sovietica. Per fortuna solo pochi vi si ammalarono.
Qui si producono i quadri medi del Partito ovvero del Governo: la futura classe dirigente del Paese..
È un insieme di fabbricati anonimi, ovviamente in cemento, in blasfemo contrasto con il parco nel mezzo del quale s’inserisce. Le piante sono impeccabilmente allineate, i viali pulitissimi, i sassi luccicanti. Ho la sensazione di trovarmi in un giardino giapponese.
Davanti all’entrata della Casa N. 9, dove Thay parlerà a un ristretto numero di funzionari di Partito e a due centinaia di invitati , si ergono due sentinelle d’alberi che sembrano montagne.
La casa è grande, le balconate sono terrazze d’ampiezza mediterranea pavimentate con piastrelle d’arte. Ogni particolare trasuda efficienza, presenza di denaro e odore di potere.
Il parco s’inclina a ovest sul Fiume Rosso verso il quale cammino. Quando ci arrivo vedo una sbancata di cemento impeciato e corrotto al cui limitare prosperano piante acquatiche dalle foglie a campana di consistenza carnosa e dai fiori bianchi a ventre di rana.
Immondizie, legni fradici, noci di cocco, sacchi di plastica e anneriti rottami di polistirolo adornano la riva inesistente.
Un merlo solitario, in sintonia con il cinguettio di uccelletti sparsi sulle alture dei giganti verdi, mi consola l’anima che oggi è mesta d’irrecuperabili memorie.
S’ode anche un fiotto di gorgogliate anatresche.
Mentre giro lungo i viali arrivano i tagliatori d’erba e i potatori di piante, le teste incapsulate in cappelli conici di paglia, che spingono carriole cariche di attrezzi e si disperdono d’intorno da operose formiche.
Alcune assorte ombre in bruno, monache e monaci che hanno disertato la conferenza per lasciare spazio agli ospiti laici, passeggiano meditando. I guardiani in divisa ostinatamente verde guardano incuriositi.
La nebbia copre il corso d’acqua e solo a distanza di pochi metri s’intuisce il guizzo di qualche solitario indigeno del fiume. Un’ esigua schiera di anatre in semicerchio sorvola la placida spianata a caccia di nutrimento.
Due bambù solidamente troncosi sono interrati oltre la cementata a frenare uno sconnesso blocco di pietre. Sul segmento aereo di uno dei bambù stanno crescendo sei virgulti di un verde tenero e pudico. Il miracolo di questa pianta politecnica: prendete un pezzo di bambù anche secco, piantatelo in un acquitrino, o mettetelo in vaso colmo d’acqua –che va rinnovata sovente- e attendete. Quel pezzo di canna secca genererà delicate piante che cresceranno in vigore.
Thay parla a impettiti funzionari in grigio antracite della meravigliosa combinazione del pensiero buddista e del culto degli antenati.
Il Vietnam sarà anche un paese a regime comunista e buddista ma la cultura radice è quella Confuciana e il culto degli antenati è religione popolare da mille anni prima del Buddismo. Ci sono anche delle domande specificatamente politiche e, in essenza, Thay risponde che il Marxismo può tranquillamente convivere con il Buddismo, nessuna contraddizione semprechè il rispetto reciproco sia mantenuto e si sappia scoprire la dimensione spirituale della politica.
Ultimo sguardo al fiume prima di avviarmi ai larghi portali in ferro battuto dell’uscita .
Due pescatori, su un legno lungo e piatto a livello d’acqua, emergono dalla foschia e con gesti pronti e solenni lanciano nasse di speranza.
19 Marzo 2005 Museo Ho Chi Minh.
Imponente costruzione di ormai classico stile sovietico, alcuni pronunciano architettura staliniana, davanti al mausoleo HCM altrettanto marmoreo e squadrato. Infatti fu costruito dai Russi prima di Gorbachev. A me ricorda l’architettura imperiale fascista. Accanto resta la sobria casa di HCM che fu uomo di esemplare frugalità, politico dall’intelligente consapevolezza dei bisogni primari del suo popolo e determinato combattente per la libertà e la liberazione del suo paese.
All’interno c’è storia ma c’è anche molta propaganda ormai inutile.
Per quel poco che so dallo studio dei suoi scritti e delle sue azioni HCM , lo Zio Ho,
il buon vecchietto dalla barba bianca da mandarino e dallo sguardo d’una dolcezza da nonno, avrebbe irrefutabilmente respinto di essere museizzato o di appiccicare il suo nome alla città di Saigon.
Deambuliamo, un po’ in fretta per il mio abituale ritmo, attraverso uno smisurato salone spartito in compartimenti da sculture che sono isole di narrazione; qui la tipica abitazione di villaggio Vietnamita, là relitti d’armi dell’esercito francese sconfitto nel 1954 a Dien Bien Phu dal Generale Vo Nguyen Giap, ch’è ancora vivente a 94 anni, altrove testimonianze dei bombardamenti americani.
La giovane guida, un ragazzo ventiquattrenne che studia per diventare giornalista, si affretta a filtrare, a proposito delle bombe al napalm, che qui è in mostra il passato e, con quell’ambiguo semisorriso Vietnamita ch’è soggetto di studio in antropologia culturale, rallegra il momento…not now…not now…non adesso….non adesso. E c’è nel suo sorriso di persona nata un decennio dopo la fine del conflitto, la volontà non tanto di dimenticare quanto di non insistere troppo su un passato di dolore.
È la politica nazionale, l’America non è più il nemico, nemmeno ideologico, ché le ideologie morirono all’ottavo congresso del Krushev che rivelò le atrocità del gulag.
Ora è tempo di pace e di cooperazione mentre…..al sole sventola bandiera rossa.
Dopo il museo rifacciamo la Dien Bien Phu e ritorniamo al Lago della Spada Ritornata .
Aperti sulla larga piazza ovale molti negozi per turisti dove potete comprare per dieci € quel che in Europa ne costerebbe almeno centocinquanta.
Terrorismo biologico dell’inquinamento, Hieronymus Bosch resuscitato nell’inferno su due ruote.
Eravamo in nove ma sei non hanno resistito al bruciore degli occhi e alla gola rischiosa. Rimasti in tre pensiamo bene di infiltrarci in un dedaletto di stradine a larghezza da Casbah e piazzole sulle quali si riversano luci e musiche molto rilassanti.
Mi sembra di essere a Montparnasse e infatti siamo nel Quartiere Latino di Hanoi.
Ci sara’ mai una fine, nel corso di una vita umana, all’imprevisto?
Chân Pháp Y , Hanoi il 18 Marzo 2005

dragone
Il cactaceo rampicante Dragone Verde.
È troppo freddo per la manifestazione dei frutti

Frangipane
Bonsai di Frangipane o Plumeria

Tutte le fotografie allegate sono di Sister Sandra

Araba
Fenice
Poesia
della
settimana
Poeti e poesia Novità Edizioni Urso Catalogo Edizioni
Urso
Mneme Giovani scrittori Cerca per autore
Libri giuridici fiscali tecnici
Archivio amici
artisti
Libri in
stampa
Concorsi Letterari Iscriviti alla nostra Mailing List Archivio
nostri autori
Icono-
grafica
Concorsi letterari Tutti i siti
di Avola
Le Sciense e libri scientifici

SEGNALA il nostro sito